Pastorale americana di Philip Roth
- Cat
- Jul 3, 2018
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Lo dico subito. Non è stato amore a prima vista, nessun colpo di fulmine. Colpa delle aspettative altissime che mi ero fatta non ricordo più esattamente da quanti anni fa e che col tempo hanno cominciato a ingigantirsi.
Ma, -non aspetto fino la fine per dirlo-, vale la pena leggerlo.
All'inizio, superate le prime pagine d'idillio, che ho letto accompagnata da un sottofondo azzeccatissimo ("Smile" di Timi Yuro), fino grosso modo a poco meno della metà, continuavo a chiedermelo. "Ma ne vale la pena?" "ma perché viene considerato un capolavoro?". Non sopportavo più quelle interminabili descrizioni dei luoghi e dei meccanismi di come si fa un guanto. Non perché non mi piacciano le descrizioni, ma perché ogni singolo periodo dura una pagina intera e perché spesso più che descrivere il paesaggio è una lista di nomi delle località e dei negozi ed edifici che probabilmente ai lettori abitanti locali saranno famigliarissimi, ma che per i lettori non solo fuori dal New Jersey ma fuori dagli Stati Uniti per non pensare ai lettori in Europa e nel resto del mondo non significano assolutamente nulla.
Un'altra cosa che ho faticato a digerire è stato il passaggio da un punto di vista esterno, terzo e limitato, ad un altro quasi onniscente senza sapere esattamente perché c'è stato, cioè cos'è che giustifica questo passaggio e che mi ha spinta a chiedermi: "com'è possibile che il pubblico e la critica abbia ritenuto credibile e passabile questo passaggio?".
Se non sbaglio il passaggio è avvenuto dopo il ritrovo del narratore-personaggio con gli altri ex-studenti della scuola liceale locale. Ma così, ragazzi, senza alcuna spiegazione per il lettore. Ad un certo punto, qualche pagina prima, quello che era stato fino a quel momento un personaggio narrante ci dice che ha scritto riguardo il protagonista ma che non sa se ciò che ha scritto si discosti molto o meno dalla sua identità reale. Stop, fine delle spiegazioni.
Ad ogni modo, non vi preoccupate. Dicevo sul serio prima quando vi ho detto che vale la pena leggerlo. A parte questi piccoli particolari fastidiosi come un pizzico di zanzara (prude prude ma poi va via), quest'opera ha una struttura se non perfetta quasi perfetta.
Non scopriamo tutto e in maniera ordinata, ma piano piano e a zig-zag. Roth ci butta dal sacco che tiene in mano, dall'alto del suo talento incontestabile, piccoli puzzle. Non è detto che il pezzo seguente vada attaccato al precedente ma si percepisce un'unità, che prima o poi verrà composta, come se fossero linee intersecanti.
Non è mai scontato. E sebbene ci siano, non lo negherò, dei paragrafi noiosi e prolissi, poi arriva di colpo il fulmine a ciel sereno, o per riprendere la terminologia del libro, la "bomba".
Ovviamente una struttura pazzesca, pur essendo necessaria perché un'opera sia una vera opera di valore, -ed è un discorso che vale anche per i grandi artisti ed intellettuali sostenitori del non-senso, che mantengono un proprio ordine, un proprio senso, una propria etica che portano avanti fino in fondo-, non basta a fare di un'opera un'opera indimenticabile ed imprescendibile. L'altra vera forza di "Pastorale americana" sta nei personaggi. Tutti loro hanno una loro individualità, chi più chi meno, un'identità ben precisa e riconoscibile.
Non li ho amati proprio tutti, ne ho amato solo uno e fortunatamente per me era il personaggio su cui ci si sofferma di più.
Non so se per voi è lo stesso, ma io non riesco mai ad amare sinceramente un libro se non mi innamoro almeno di uno dei personaggi. Mi viene in mente "La coscienza di Zeno" di Svevo, che pur riconoscendone il valore e il coraggio dell'autore, ad un certo punto mi risultava insopportabile continuare a leggere, a causa proprio di Zeno, il protagonista. Ma posticipiamo con un "magari la prossima volta" il discorso.
Io mi sono innamorata dello Svedese. Oh, non subito. Non quando veniva ritratto solo come il bello-ricco-popolare-fortunato-anzi-privilegiato-ebreo-americano. Ma dopo. Dopo, poco prima d'essere costretto a rivedere le sue considerazioni sui principi base su cui ha fondato tutta la sua identità.
Verso la fine, in seguito ad un puzzle-bomba che ha molto gentilmente sganciato Philip, mi è un po' sceso, ma ammetto che quella bomba era proprio inevitabile. Era, -è-, una delle ultime colonne portanti della storia.
Se non avete ancora letto il ibro saltate questo pezzo e riprendete a leggere dopo il punto, se invece lo avete già letto vi svelo qual'è il passo che mi ha fatto un poco cadere lo Svedese dal cuore: il tradimento con la foniatra (proprio non me lo sarei mai aspettata da lui...!).
Sebbene Seymour sia l'unico vero personaggio che io abbia davvero amato, ce ne sono altri cui mi sono sentita vicina, che non ho potuto condannare. Merry, Dawn, Sheila... perfino Rita Cohen mi è piaciuta. Nessuna di loro è banale o facile o semplice da capire, ma hanno una loro verità e sono a modo loro autentiche, a differenza degli uomini del romanzo (fatta eccezione per Seymour e in parte per il vecchio Levov).
La fine della narrazione è sfumata. Dura circa cento pagine e si svolge in una serata tra familiari e amici.
In quelle ore, in quelle pagine, ci sono due bombe e poi Il Rovesciamento che si preannuncia definitivo e che però conserva una debole speranza, la possibilità di riconquistare il paradiso perduto. Non più come prima però, ma un paradiso reso più reale dalla corruzione della falsità, del dolore e dell'incontrollabile.
Solo un'illusione forse, perché nella prima parte, quando il narratore era ancora un personaggio, questo ci aveva già svelato la fine, quella vera.
Come ci arriva a questa fine, Seymour Levov Lo Svedese, è un gap colmabile solo con la nostra soggettiva fanstasia.
P.S.: le ultime pagine andrebbero lette con "The First Time Ever I Saw Your Face" di Roberta Flack. Ci sta divinamente.
E per quanto riguarda la copertina, lo sapete già. La nuova ristampa è orrenda e infatti ho dovuto prendere una copia del 2000, che per una botta di fortuna qualcuno mi ha venduto molto carinamente a 11 euro.
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